Con-solazione il bisogno primario che non conoscevi.
Esiste in natura? Ogni volta che cerco di capire quali atteggiamenti appartengono alla vera natura dell’uomo e quali invece sono costrutti dell’ego o macchinazioni mentali, io butto un occhio a cosa accade in natura.
Perché la natura non è buona o cattiva e non ti giudica, la natura e le sue creature sono fedeli ai loro bisogni e non si muovono mai in maniera manipolatoria o seguendo astrusi percorsi di seghe mentali.
E la consolazione, esiste.
Si, meno articolata della nostra, eh? Sia chiaro. Ma in natura quando un animale è in difficoltà, gli altri membri del branco si sentono “chiamati” con un istinto naturale a prendersi cura o quanto meno interessarsi all’accaduto. Tendenzialmente lo fanno per far sentire la presenza o vedere se ci sono cose che possono fare, in maniera molto semplice.
Non tutte le specie lo fanno, e non in tutte le occasioni, poiché la sopravvivenza dell’individuo in funzione della specie è prioritaria, ma sti di fatto che c’è.
Non è quindi né un’esigenza superficiale e montata, ne tanto meno una cosa da deboli, femminucce, mezze cartucce o mezzi strumenti di falegnameria.
Davanti a un dolore altrui, l’istinto è quello di interessarsene.
La differenza nell’essere umano, è che inconsapevolmente il suo intervento sul dolore altrui è, per la maggior parte delle volte, un intervento indiretto sulla propria incapacità di sopportare quel dolore. Come se fosse uno specchio, o un disperato bisogno di salvare quel qualcuno o farsi carico di quel dolore nell’idea che “io so meglio gestire quel dolore, fa meno male a me che a te” ecc…
La prima, sottilissima, spinta che ci fa intervenire nel dolore altrui, è qualcosa che nasce dentro di noi.
Che non vuol dire che siamo brutte persone, non fraintendete. Non sto dicendo che aiutiamo gli altri solo per aiutare noi stessi.
E’ come fosse un programma installato nell’essere umano per avere la certezza che nessuno, nel dolore, rimarrà solo.
Come si fa a gestire allora? La differenza sottile sta nel tipo di intervento e, indovinate un po’ (come se non l’avessi mai detto) nel riconoscere cosa sta accadendo.
Va benissimo che io senta il bisogno incalzante di consolare te, anche se questo dalla mia incapacità di vederti soffrire perché mi fai da specchio su qualcosa, posso semplicemente accoglierlo, fare un bel respiro e non intervenire a gamba tesa nel tuo dolore spingendoti a reagire ad ogni costo, o decidendo al posto tuo cosa fare, o prendendo iniziative su come “gestire il tuo dolore” senza quasi interpellarti.
Nessuno può salvare nessuno, al massimo possiamo fare da staffa di appoggio quando l’altro avrà voglia di farlo.
E' la cosa più difficile da accogliere.
In una società in cui "mollare" non è ben visto, in cui devi lottare, sforzarti, essere competivi (tutti movimenti yang-maschili), prendersi il proprio tempo per sentire il nostro dolore, non è contemplato ed è anche da perdenti.
Consolare non vuol dire prendere decisioni e fare cose che “crediamo” utili per aiutare l’altro… Consolare vuol dire “non sei solo, e il sole tornerà ad esserci”.
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